di Bruno Messina*
Il caso di cui si sono occupati i giudici della Suprema Corte nella sentenza n. 8036 del 25.03.2024 è quello di un soggetto che, in data 29 settembre 2012, si era recato presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale civile della Valle d’Aosta lamentando una dolenzia, perdurante da circa sette/dieci giorni, nella regione emitoracica sinistra superiore con formicolio distale alle dita e alla mano sinistra, nonché una dolenzia alle articolazioni interfalangee delle dita della stessa mano sinistra. Nell’occasione, la persona veniva visitata dal medico del P.S. che, all’esito di esami strumentali, escludeva disturbi cardiaci e diagnosticava una “artrosi acromion-claveare sinistra, con segni di conflitto sub acromiale ed artrosi cervicale”, dimettendo il paziente nella stessa giornata, con prescrizione di antidolorifici e consiglio di recarsi dal proprio medico curante e di sottoporsi a visita ortopedica.
Il soggetto, però, stante il peggioramento delle proprie condizioni di salute, si recava nuovamente, in data 4 dicembre 2012, presso lo stesso Pronto Soccorso, ove, all’esito di TAC cerebrale, veniva ricoverato d’urgenza e dopo l’effettuazione di esami strumentali si vedeva diagnosticata una “mielopatia cervicale in ernie discali C5-C6-C7”, che richiedeva un’immediata operazione chirurgica, cui seguiva un periodo di terapia riabilitativa all’esito della quale egli riacquistava solo una limitata autonomia nella deambulazione e rimaneva afflitto da gravi postumi invalidanti.
La grave patologia neurologica era, secondo il paziente, da correlarsi eziologicamente alla condotta colposa del medico del Pronto Soccorso che, in occasione dell’accesso avvenuto in data 29 settembre 2012, non aveva neppure ipotizzato l’esistenza di disturbi neurologici.
Quindi, la persona si rivolgeva al Tribunale di Aosta e poi alla Corte d’Appello di Torino chiedendo il risarcimento dei danni patiti a seguito della prestazione sanitaria resa dal medico di P.S. che, secondo il soggetto, sarebbe stata connotata da colpa professionale.
In sintesi il paziente lamentava che al medico era addebitata la “negligente pretermissione, nel frangente del 29.9.2012, di ogni indagine volta ad appurare la patologia degenerativa di natura neurologica all’epoca già in essere, poi accertata nella sua gravità soltanto dopo poco più di due mesi quando la stessa era oramai giunta ad uno stato conclamato” e, in particolare, al medico veniva ascritta “l’omessa effettuazione … di una risonanza magnetica nucleare, unico esame diagnostico veramente necessario, ma sufficiente, per comprendere la venuta insorgenza di mielopatia cervicale in ernie discali specificamente localizzate, con conseguenti compressioni del midollo spinale sofferenze endomidollari”. Tuttavia, il Tribunale, attraverso una consulenza tecnica, accertava che le condizioni cliniche del paziente, in occasione dell’accesso del 29.09.2012, non si presentavano “connotate da emergenza e urgenza”, essendo la sintomatologia del paziente “non univoca ed in un certo senso aspecifica”. Inoltre, si evidenziava che il medico del P.S. aveva, incentrato “la propria attenzione su possibili problematiche cardiache od ortopediche, le uniche congetturabili alla stregua dell’anamnesi riferita dal paziente e concretamente indagabili nell’immediato” e che i risultati delle indagini diagnostiche effettuate avevano condotto, per un verso, ad escludere la sussistenza di patologia cardiaca acuta e, per altro verso, a “congetturare, attesi oltretutto i sintomi riferiti, “una degenerazione artrosica a carico dell’articolazione acromion-claveare e della colonna cervicale mediodistale”. Pertanto, non essendovi alcun sintomo suggestivo che deponesse “per una patologia neurologica, non vi era alcuna ragione per trattenere in pronto soccorso il soggetto o per ricoverarlo”, mentre era invece “corretto rinviarlo all’attenzione del medico curante suggerendo una visita ortopedica e una terapia antinfiammatoria””.
Dunque, non venne effettuata una risonanza magnetica poichè il ricorso ad una siffatta indagine diagnostica non era “un esame di primo livello (almeno non nelle condizioni cliniche presentate dalla persona al momento dell’accesso presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Aosta in data 29 settembre 2012), quindi non eseguibile in pronto soccorso, in quanto non erano presenti elementi di urgenza/emergenza”, competendo una tale “decisione …, eventualmente, allo specialista ortopedico in seguito all’esame obiettivo e ad una accurata raccolta anamnestica”. Di conseguenza i giudici esclusero “qualsiasi profilo di colpa nell’approccio diagnostico e terapeutico tenuto dal medico del P.S. e rigettarono la richiesta di risarcimento avanzata dal paziente. E tale decisione è stata confermata dai gradi successivi di giudizio.
In definitiva, dunque, possiamo dire che, secondo la Cassazione, in caso di prestazione sanitaria resa in ambito di Pronto Soccorso, in presenza di una sintomatologia aspecifica del paziente la diligenza del medico deve essere operata avuto riguardo alla rapidità dell’inquadramento diagnostico e alla determinazione degli accertamenti indispensabili al pronto intervento per confermare la diagnosi e predisporre con speditezza le azioni per la risoluzione della patologia che ha determinato l’accesso al pronto soccorso.
*Avvocato, Presidente del Codacons Siracusa, Vice Presidente Codacons Sicilia