di Dario Zappalà
Traendo spunto da un neologismo coniato tempo fa dall’editorialista di Repubblica, Francesco Merlo, che come un mantra stigmatizza la nostra “italianità” in diversi suoi articoli su costume, società e politica, riprendo in questo mio articolo il concetto di “quasità”.
Già implicitamente esso esprime quella “approssimazione” che pervade la nostra cultura e il nostro spirito ribelle e riluttante non solo alle regole ma persino alla vera conoscenza basata sullo studio, la lettura, la competenza e l’istruzione.
Forse è proprio questo sapersi barcamenare nelle formule del “quasi” che consentono di esprime una creatività inimitabile esaltata da un raro equilibrismo in tutti gli ambiti di una vita sociale in cui tutto viene interpretato come quasi regola, quasi legge, quasi divieto, quasi obbligo come se il buon senso non avesse una sua specifica collocazione verticale da osservare dal basso per coglierne l’idea più alta di etica individuale, quanto piuttosto una visone orizzontale e circolare da adattare alle proprie esigenze e che poco importa se risulta prevaricante nei confronti del prossimo o persino illecito. Tanto, qualsiasi atto istintuale potrà eventualmente essere derubricato a “quasi” illecito!
Ovviamente, anche le istituzioni che ci governano, constatando come il nostro popolo non ambisca a una stabilità da terra ferma ma ad un galleggiamento da mare mosso, appiattiti da un’educazione e un livello culturale omologato alla media, usano i remi – quando non li ritirano in barca – per vogare verso direzioni imprecisate come prevedono le leggi della fisica quando i moti sono asincroni e omnidirezionali.
Tuttavia, in questa improvvisazione e creatività si potrebbe intravedere l’effimero valore della libertà che in senso assoluto viene inteso come rigetto delle regole e degli obblighi che ordinano la convivenza civile per far prevalere quelle libertà individuali che non incorporano certamente l’assunto kantiano secondo cui la libertà deve essere anche morale e deve imporre all’individuo un’autodisciplina che a sua volta esige obbedienza nei confronti della legge.
Ecco quindi che anche le leggi devono essere chiare e intellegibili ai più, evitando i presupposti del “quasi” che il buon Francesco Merlo evidenzia in un suo articolo di epoca pandemica: “Mini lockdown”, “semi lockdown”, “lockdown parziale”: sono i diminutivi dell’isolamento, ricordano le donne un poco incinta, le case chiuse semiaperte, il mezzo morto. Introducono infatti la mezza misura nel fuori misura. Socchiudono la clausura. Chiudono le scuole lasciandole aperte. Impongono il confinamento con sconfinamento a percentuale. Promuovono il “quasi” a rimedio pandemico. Inventano il lockdown con la condizionale, il “chiuso per virus” ma non troppo. Propongono il “no-ma-anche-sì” come antivirale economicamente sostenibile. Ecco che torna dunque la quasità italiana, vecchio trucco che è allo stesso tempo una difesa per addomesticare la realtà dei contagi in crescita e dei conti in decrescita.
Il concetto di libertà ha radici antiche di cui il nostro popolo conserva ancora la memoria genetica risalendo alla politica dell’antica Grecia, resa nobile grazie al giurista e poeta Solone, ripresa e adottata “pro domo sua” (Cicerone docet) dalla “libertas” romana a sua volta messa in crisi dalla rivoluzionaria libertà spirituale professata con l’avvento del cristianesimo divenendo libertà universale che però Lutero ripropone come libertà interiore contrapposta alla nullità del mondo.
Sull’argomento potremmo citare molti pensatori, da Schopenhauer a Popper, da Kant a Hegel, ma mettere insieme tutte le sfumature sul concetto di libertà ci riporta al criterio della “quasità” di Merlo e forse allora questo pressappochismo può rappresentare due facce della stessa medaglia: una individualista e l’atra altruista, come se la libertà stessa, sia essa espressa da chi governa o decide per gli altri, sia essa proposta o indicativa, fosse quasi interiore ma anche quasi universale, quasi giusta ma anche quasi sbagliata.
Merlo definisce quest’esercizio un “trucco” però magari, chissà, forse è un’arte.
Tuttavia, poiché gli italiani sono un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori” – come in un celebre discorso di Benito Mussolini contro la condanna all’Italia da parte delle Nazioni Unite per l’aggressione all’Abissinia – chi guida un popolo dovrebbe essere prima governato dal buon senso di statista affinché possa guardare alle generazioni future nei programmi e agli educatori a qualsiasi livello (scuola, sanità, famiglia, arte e cultura) nelle decisioni immediate.