di Dario Zappalà
Riflettendo sull’avanzare dell’età, mi chiedo se “anzianità” e “vecchiaia” siano solo una realtà o anche o soltanto dei concetti.
Tale riflessione mi sorge dal sostenere e constatare che si può essere anziani a cinquant’anni per saggezza e si può essere vecchi a quaranta per stanchezza.
Ritengo inoltre che un individuo possa definirsi “vecchio” quando non solo non è più utile alla società in cui vive ma ne diventa addirittura un fardello.
Pertanto, il vero problema dell’età che avanza è quello d’imparare a invecchiare bene per non essere considerati vecchi ma piuttosto un’immensa risorsa in virtù di quella anzianità che nell’accezione che intendo significa “saggezza” cui attingere.
Di certo, a tutte le età, una buona capacità di interagire e dialogare anche attraverso l’uso della moderna tecnologia digitale e dei social network conferisce una maggiore autonomia gestionale e pertanto anche decisionale.
Tale premessa faccio solo per rivalutare, con ardimento antropologico e persino filosofico, il concetto medico-scientifico che convenzionalmente definisce anziano l’essere umano dai sessantacinque anni (la così detta terza età), vecchio dai settantacinque (quarta età) e grande vecchio dagli ottantacinque.
Ebbene, occorre valutare la condizione psicofisica e culturale con la quale si raggiunge ogni traguardo poiché forse il vero concetto da considerare è la “fragilità”.
Tuttavia, detta fragilità certamente incide più significativamente su una condizione di disagio legato al basso livello culturale e allo svantaggio economico e sociale, quest’ultimo eventualmente aggravato da menomazioni fisiche o da uno stato di malattia e di debilitazione o ancora da un decadimento cognitivo.
Compito dell’assistenza primaria è quello di occuparsi soprattutto di queste ultime condizioni, avendo cura di personalizzare le terapie compatibilmente con la situazione di particolare fragilità, favorendo la possibilità di socializzare e sentirsi ancora utili e adeguati, magari invogliando a progettare e programmare il resto della vita terrena, sia pure per brevi ma rinnovabili opportunità di proiezione della propria esistenza.
Per tale prospettiva è fondamentale la presenza di eventuali care giver che si prendano cura dell’individuo fragile in collaborazione con il medico che invece semplicemente “cura” lo stesso individuo, secondo l’accezione anglosassone che distingue il predicato to cure (curare) da to care (prendersi cura).
Ecco dunque che un sistema “ospedalocentrico”, per usare un moderno neologismo, non può certamente rispondere a dette esigenze quanto una territorialità che consenta una presa in carico in prossimità, come nel caso delle case di riposo o dell’attività di badante presso il domicilio dell’individuo stesso o del distretto sanitario con la dislocazione ubiquitaria degli studi di medicina generale.
Se permettiamo alla fragilità del corpo di trasformarsi in fragilità dell’intelletto, essa diventa fragilità dell’anima e ne scaturirà soltanto un grave disagio esistenziale.